La conferenza COP26 che si svolgerà a Glasgow a novembre sarà la più importante degli ultimi vent'anni. I paesi che hanno tenuto fede alle promesse fatte a Parigi nel 2015 sono assai pochi e questo prossimo appuntamento potrebbe essere l'ultima occasione per porre obiettivi e compiere azioni sufficientemente audaci. È ormai chiaro infatti che sarà impossibile limitare l’aumento delle temperature medie globali di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali e che anche i 2°C sono ormai un traguardo difficile. Di seguito cerchiamo di capire perché gli obiettivi di Parigi si sono rivelati insufficienti e cosa deve cambiare a Glasgow per correggere il tiro.

I punti chiave per ristabilire la credibilità dell’Accordo di Parigi.

  1. I paesi firmatari dovrebbero aggiornare gli obiettivi di riduzione delle emissioni allineando il limite complessivo di emissioni con il contenimento dell'aumento della temperatura entro la soglia dei 2°C oltre i livelli pre-industriali.
  2. È essenziale che il maggior numero possibile di economie avanzate si impegni a conseguire l'obiettivo dello zero netto entro il 2040. Questo alleggerirà in parte l'onere gravante sulle economie emergenti e migliorerà le probabilità di raggiungere gli obiettivi di Parigi.
  3. I vari governi dovrebbero sostenere questi impegni con normative vincolanti, tra cui un prezzo del carbonio più alto, maggiore coordinamento politico a tutti i livelli e una più ampia spesa in R&S per la neutralità carbonica.
  4. Gli effetti regressivi dell'aumento dei prezzi del carbonio saranno compensati dall'investimento dei flussi di reddito generati a favore di politiche progressive, tra cui la riforma dei sistemi di trasferimento fiscale.
  5. I firmatari dovranno triplicare i finanziamenti destinati al Green Climate Fund (GCF) e accelerare il Sustainable Development Mechanism (SDM) per promuovere una transizione più equa.
  6. Inoltre, dovranno implementare un chiaro quadro di riferimento e standard rigorosi riguardo alla disclousure in ambito climatico, in linea con le raccomandazioni della Task force on Climate related Financial Disclosures (TCFD).

I membri del G7 e del G20 dovrebbero manifestare con decisione l'intenzione di adottare misure in tal senso in occasione delle prossime riunioni. Questo darà un forte segnale al resto del mondo riguardo al fatto che le maggiori economie e i principali responsabili delle emissioni sono pronti a fare tutto il possibile per limitare i danni futuri del cambiamento climatico.

L’Accordo di Parigi: più spesso disatteso che osservato

I cinque anni intercorsi dalla ratifica dell’Accordo di Parigi rappresentano un’occasione mancata. Tra il 2016 e il 2019 le emissioni globali di gas serra hanno infatti continuato ad aumentare, seppur più lentamente che nel decennio precedente. Malgrado le riduzioni registrate nel 2020 per effetto della pandemia, con la successiva ripresa, le emissioni sono tornate a salire vertiginosamente a fronte del maggior consumo di carbone, gas naturale e petrolio. Poiché appare poco probabile che le emissioni globali inizino a calare prima del 2022, la riduzione necessaria nel resto del decennio per avere una possibilità anche minima di raggiungere gli obiettivi di Parigi sarà ancor più drastica.

Sotto molti aspetti, questi insuccessi erano inevitabili sin dalla firma dell’Accordo di Parigi. Malgrado gli ambiziosi obiettivi dell’accordo, i contributi nazionali (Nationally Determined Contributions o NDC's) che avrebbero dovuto sostenerli sono stati almeno dell’80% al di sotto degli sforzi necessari per raggiungerli. Inoltre, malgrado l'inasprimento generalizzato degli obiettivi nazionali nell’ultimo anno, gli impegni attuali comportano comunque un aumento medio delle temperature di 2,4°C (cfr. Figura 1), con tutti i danni ambientali che questo comporta.

Figura 1: Con gli impegni attuali le temperature globali sono destinate ad aumentare di 2,4C°

Thermometer

Le dichiarazioni non bastano, i paesi devono agire

Per ridurre le emissioni in modo duraturo e adeguato non bastano obiettivi vaghi, sono necessarie misure drastiche sottoscritte da tutte le istanze politiche e codificate da norme chiare. Questo è il motivo per cui abbiamo sviluppato l’ASI Climate Policy Index per le principali economie avanzate. Si tratta di un indice che integra la nostra ricerca Going Green e che è strettamente allineato al nostro quadro di riferimento ASI Climate Scenario, offrendo così uno strumento importante per individuare i rischi e le opportunità dei processi d’investimento e sviluppare soluzioni per i clienti.

Ai fini della costruzione dell'indice è necessario partire dalla valutazione del contesto politico e normativo per contrastare il cambiamento climatico. Individuiamo otto fattori di importanza cruciale per promuovere e sostenere interventi credibili e di lungo orizzonte, ai quali assegniamo un punteggio basato sul grado di compatibilità con il raggiungimento dello zero netto entro il 2050.

Le nostre analisi mostrano che i progressi compiuti dalla maggior parte dei paesi sviluppati verso la decarbonizzazione sono disomogenei; inoltre, a nostro avviso nessun paese si è dotato di strategie credibili per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 (cfr. Figura 2). Il divario fra ciò che i paesi prevedono di fare e ciò che sarebbe realmente necessario è ancora più ampio se si considera che, per garantire una transizione più equa che tenga conto della maggiore responsabilità storica delle economie avanzate nel cambiamento climatico, queste nazioni dovrebbero azzerare le proprie emissioni nette ben prima del 2050.

Guardando più da vicino le misure credibili adottate dai vari paesi, troviamo Svezia e Danimarca attualmente in testa al gruppo in quanto integrano le iniziative climatiche in tutti gli aspetti delle loro politiche. Il piano di azione sul cambiamento climatico della Svezia contiene infatti oltre 130 misure che coprono tutti i settori economici, mentre la legge sul clima della Danimarca prescrive l'integrazione dei requisiti di sostenibilità in tutta la normativa nazionale e il rispetto di questo obbligo è monitorato da un comitato permanente per la trasformazione green. È il rigore di questo impegno e il suo carattere giuridicamente vincolante a fare la differenza rispetto alla maggior parte delle altre economie, che professano obiettivi politici ambiziosi, ma generici e di scarso peso legale. 

Carbon pricing: molto amato dagli economisti, poco dai governi

Il cambiamento climatico è un classico esempio di insuccesso del mercato dovuto a fattori negativi esterni. L’inquinamento prodotto dai gas serra ha avuto ripercussioni ambientali e sociali estremamente negative, ma non esistono misure per responsabilizzare gli autori dell’inquinamento. Attribuire un prezzo a questi fattori esterni tramite la carbon tax o lo scambio di quote di emissione tramite l'Emissions Trading Schemes (ETS) dell'Unione Europea è il modo ideale per costringere i maggiori responsabili dell’inquinamento a farsi carico dei costi dei danni provocati e accelerare la transizione verso la neutralità carbonica.

Purtroppo, però, i prezzi del carbonio al momento in vigore sono inadeguati. Anche se la maggior parte dei paesi del nostro indice prevede qualche forma di tassazione del carbonio, il livello è in genere troppo basso per sostenere gli attuali obiettivi climatici. Neppure in Svezia, dove il prezzo del carbonio è il più alto del mondo a circa 126 USD (SEK 1.190) per tonnellata metrica di CO2, il livello non è sufficiente per centrare l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050. I prezzi delle quote di emissione scambiabili ai sensi dell'ETS dell'UE sono notevolmente aumentati quest’anno, ma a soli 50 euro per tonnellata sono sempre troppo bassi per promuovere un cambiamento degno di nota del livello di emissioni. Per di più, gli Stati meno virtuosi del nostro sistema di classificazione, come Stati Uniti, Australia e Giappone, non hanno implementato alcun tipo di tassazione del carbonio a livello nazionale e le probabilità che la situazione cambi sono assai remote.

Gli incentivi politici sono uno dei motivi principali dell'inadeguatezza della tassazione del carbonio e dei divari tra le varie politiche nazionali. Negli Stati Uniti (il secondo produttore mondiale di CO2), le profonde divisioni tra i partiti hanno ostacolato i progressi necessari sul fronte climatico. Il presidente Biden ha messo il clima al centro dell'agenda politica dopo i quattro anni di inversione di marcia dell’amministrazione Trump, tuttavia anche il suo governo è restio a introdurre una tassa federale sul carbonio. Sino a quando Repubblicani e Democratici resteranno profondamente divisi riguardo alla necessità di interventi a favore del clima tutte le elezioni di medio termine e presidenziali degli Stati Uniti continueranno a rappresentare un rischio per un'azione seria e sostenibile contro il cambiamento climatico.

In Europa, d'altro canto, malgrado i diversi livelli di impegno politico degli Stati membri, il mandato legale collettivo dell’UE per la decarbonizzazione della regione assicura un costante progresso sul clima. In sostanza questo assetto garantisce un livello minimo di iniziative per il clima, pur essendo ben lontano dall'assicurare un'azione coordinata a favore della neutralità carbonica, in particolare visto che circa la metà delle emissioni dell’UE sfugge alla portata del sistema ETS.

La tassazione del carbonio è necessaria per promuovere la transizione energetica verso lo zero netto, ma naturalmente deve essere integrata anche da altre azioni mirate. La roadmap dell'International Energy Agency (IEA) per la neutralità carbonica entro il 2050 mostra che quasi il 50% dei tagli necessari dipende da tecnologie non ancora disponibili. I governi svolgono un ruolo cruciale nel ridurre i tempi necessari per introdurre questi prodotti sul mercato, implementare le infrastrutture necessarie e predisporre quadri normativi idonei.

È inoltre essenziale un alto livello di cooperazione internazionale per garantire il trasferimento delle conoscenze e l’allineamento delle strategie a livello regionale e per promuovere economie di scala. Sarà infatti necessario sostenere la R&S con un consistente aumento degli investimenti pubblici e privati, in particolare ingenti finanziamenti statali per gestire il rischio e sfruttare i finanziamenti privati. Ma la riduzione della spesa pubblica globale per R&S di circa due terzi rispetto al PIL degli ultimi trent'anni evidenzia il divario tra parole e fatti.

I mercati emergenti devono diventare la nuova frontiera della decarbonizzazione

Il nostro Climate Policy Index copre 14 mercati sviluppati, che complessivamente rappresentano la maggior parte delle emissioni storiche di gas serra. Tuttavia, negli ultimi vent’anni le emissioni delle economie avanzate sono state sorpassate da quelle dei paesi emergenti e oggi la Cina è di gran lunga il più grande produttore di emissioni di CO2 al mondo (cfr. Figura 3). Considerate le attuali tendenze di espansione demografica ed economica, nonché la maggiore intensità di emissioni, in futuro la quota di emissioni delle economie emergenti è destinata ad aumentare. Ciò significa che il conseguimento degli obiettivi di Parigi dipenderà sempre di più da questo gruppo di paesi. 

Vale quindi la pena soffermarsi sulle emissioni e le politiche climatiche della Cina. Alla fine dello scorso anno Pechino ha nettamente intensificato i propri impegni a favore del clima, promettendo di diventare un’economia a zero emissioni entro il 2060. Questo sviluppo positivo, seguito dalla decisione di introdurre un sistema di scambio delle quote di emissione, dimostra ancora una volta la capacità della Cina di assumere un ruolo guida rispetto al complesso delle economie emergenti, nonché a molte economie avanzate.

Ciononostante, il governo di Pechino dovrà fare molto di più per rendere questi impegni pienamente credibili. Infatti, non ha ancora promesso di cominciare a ridurre le emissioni entro il 2030 e questo metterà a dura prova altri paesi che dovranno moltiplicare i propri sforzi nel corso del decennio. Inoltre, un'analisi approfondita rivela che la Cina intende realizzare una quota consiste di tali obiettivi utilizzando tecnologie per le emissioni negative come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, di cui Pechino (come peraltro il resto del mondo) deve ancora dimostrare l'efficacia.

Dopo la pandemia le emissioni cinesi sono aumentate più rapidamente di quelle di qualsiasi altra economia e hanno già superato i livelli del 2019. In parte ciò è dovuto alle misure di stimolo fiscale varate da Pechino per sostenere la ripresa, tutt'altro che green e orientate più al settore industriale che a quello dei servizi. La Cina ha inoltre continuato a investire in nuove centrali elettriche a carbone e il suo nuovo ETS assegna un numero probabilmente eccessivo di quote a impianti decisamente poco efficienti.

Inoltre, la maggior parte dei mercati emergenti esterni al perimetro dell’UE affronta difficoltà anche maggiori per portare il clima al centro dell'agenda politica, vista la naturale priorità assegnata allo sviluppo economico e la loro dipendenza da tecnologie rinnovabili, know-how e flussi finanziari provenienti dai paesi sviluppati.

Le insufficienti iniziative politiche pongono agli investitori un grande dilemma

L'attuale contesto politico caratterizzato da obiettivi di riduzione delle emissioni globali insufficienti e poco credibili ha un peso molto importante sugli investimenti. Uno dei principali obiettivi dell’Accordo di Parigi era garantire flussi finanziari compatibili con i target di temperatura, e per questo sono nate varie iniziative tese a incoraggiare i maggiori operatori del settore finanziario, e le società in cui investono o che finanziano, ad allineare le proprie decisioni di allocazione dei capitali con gli obiettivi di Parigi.

Visto però che le politiche nazionali non sono allineate in modo credibile a questi obiettivi e probabilmente non lo saranno neanche in futuro, non è logico attendersi che lo siano i flussi di capitali gestiti dal settore finanziario. Anche i nostri scenari climatici rispecchiano questa situazione. Nel nostro scenario di base il pianeta non riesce infatti a mantenere l’aumento della temperatura entro i 2°C e ciò determina rischi e opportunità di investimento molto diversi rispetto a quelli possibili in un mondo allineato ai target climatici di Parigi. Questo è uno dei motivi principali per cui l'impegno di investitori e aziende per la neutralità carbonica è di fatto condizionato all’allineamento delle politiche statali con quanto stabilito nell’Accordo di Parigi.

Glasgow rappresenta probabilmente l'ultima chiamata per imboccare la strada tracciata a Parigi.

Ci sarà un cambio di marcia a Glasgow?

Glasgow rappresenta probabilmente l’ultima chiamata per imboccare la strada tracciata a Parigi. Cosa occorre fare allora? Di seguito esponiamo sei raccomandazioni chiave, che reputiamo realizzabili, per dare credibilità agli obiettivi di Parigi.

  1. Prima raccomandazione. La necessità di rinnovare gli obiettivi di riduzione delle emissioni in modo che il loro limite complessivo basato sul contributo di tutti i paesi firmatari sia compatibile con il mantenimento dell'aumento delle temperature almeno entro i 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Non sarà utile a nessuno rafforzare gli impegni prevedendo obiettivi ancor più ambiziosi in assenza di piani climatici nazionali pienamente allineati a questo traguardo.
  2. Anche se le economie avanzate che hanno annunciato impegni di decarbonizzazione entro il 2050 sono molte di più di quelle emergenti, le responsabilità dei paesi ricchi in materia di lotta al cambiamento climatico sono importanti quanto quelle dei paesi in via di sviluppo. Pertanto, la nostra seconda raccomandazione è che il maggior numero possibile di economie avanzate adotti l'obiettivo della neutralità carbonica entro il 2040. Solo in questo modo sarà possibile realizzare gli impegni dell’Accordo di Parigi.
  3. Vista l’enfasi che poniamo sulla credibilità, la nostra terza raccomandazione è che i nuovi piani climatici nazionali siano sostenuti da norme vincolanti e preferibilmente da una tassazione del carbonio più onerosa. Gli approcci di Svezia e Danimarca all'azione per il clima, tesi ad assicurare la coerenza delle iniziative politiche con gli obiettivi di emissione nazionali, sono il modello a cui la maggior parte dei paesi dovrebbe ispirarsi.
  4. Senza tale approccio, vi è il rischio che in futuro vengano approvati progetti infrastrutturali e di altro tipo che penalizzano, invece di favorire, gli obiettivi climatici. Le potenziali conseguenze politiche di prezzi del carbonio più alti e regressivi potranno invece essere gestite impiegando questi flussi per finanziare iniziative di tassazione progressiva, tra cui la riforma dei sistemi di trasferimento fiscale, che è in pratica la nostra quarta raccomandazione.
  5. Inoltre, vista la dipendenza degli obiettivi di Parigi dalla separazione tra emissioni di carbonio e domanda energetica/attività delle economie emergenti, sarà necessario un sensibile incremento dei finanziamenti diretti al Green Climate Fund (GCF) e al Sustainable Development Mechanism (SDM) da parte dei paesi firmatari. I 100 miliardi di dollari stanziati per il GCF a supporto della mitigazione e dell’adeguamento nei paesi in via di sviluppo sono infatti decisamente insufficienti, mentre l’SDM deve ancora decollare. Sarebbe in realtà necessario triplicare i finanziamenti destinati al GCF – che resterebbero comunque al di sotto dello 0,5% del PIL mondiale annuo – per finanziare in modo adeguato una transizione equa.
  6. Per finire, esortiamo i firmatari a implementare sistemi informativi e regolamenti chiari, in linea con le raccomandazioni della Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD). Ciò offrirà agli investitori le informazioni necessarie per integrare i rischi e le opportunità del cambiamento climatico nei modelli di investimento. Inoltre, l'obiettivo ultimo deve essere il concreto azzeramento delle emissioni.

Non perdere mai di vista l’obiettivo

Le nostre raccomandazioni prospettano target indubbiamente ambiziosi, ma realizzabili se tutti i paesi facessero la loro parte e condividessero la responsabilità di agire. I vantaggi di un simile approccio sono incalcolabili. L'IEA ha infatti recentemente dimostrato che, se implementata nel modo giusto, la transizione verso la neutralità carbonica entro il 2050 può risollevare anziché frenare l’attività economica rispetto allo scenario di base.

Inoltre, tenuto conto dei costi economici dell’inazione per le generazioni future, senza parlare degli impatti sociali, sanitari e ambientali e degli elevati costi associati, la necessità di intervenire subito e in modo drastico appare ancor più evidente.

Bisognerà però vedere se i leader mondiali saranno o meno in grado di guardare oltre il breve termine e se, noi, in quanto cittadini, sapremo premiare adeguatamente questo tipo di approccio.